VILLA CIANI – LUGANO
La vita schiva e misteriosa di un grande fotografo svizzero, morto troppo giovane, raccontata attraverso la sua opera e le tracce dei suoi viaggi nel Sahara, deserto, mito e topos dell’anima. A cento anni dalla nascita, la Svizzera riscopre Peter W. Häberlin (1912 – 1953) dedicandogli una mostra allestita a Villa Ciani. La ricerca svolta dal museo per riportare alla luce le tracce e la vita di Häberlin, attraverso la testimonianza degli amici, dei compagni di viaggio dei parenti ancora vivi o dei loro diari e racconti, è stato appassionante e avventuroso, e consente di vedere e scoprire l’opera di quello che si può considerare uno dei più grandi fotografi svizzeri del secolo scorso. Le 128 fotografie ordinate secondo un percorso narrativo che permette di precisare le diverse tematiche e i caratteri salienti della fotografia e della visione del mondo di Häberlin, sono esposte per la prima volta in pubblico e provengono dalle stampe dei negativi conservati dalla Fondazione Svizzera per la Fotografia di Winterthur, realizzate appositamente per l’esposizione temporanea. Ad arricchire la narrazione fotografica una selezione di oggetti della cultura materiale Tuareg provenienti dalle Collezioni del Museo nazionale di antropologia ed etnologia dell’Università degli studi di Firenze.

Nella sua passione per il continente africano si può scorgere una risposta agli anni drammatici della guerra, una tensione verso un luogo ancora incontaminato e non sconvolto profondamente dal conflitto. Un continente in cui, sottotraccia, si intravede la possibilità di un’altra società, ideale e senza tempo, dove l’uomo vive ancora in un rapporto autentico con la natura. Le sue immagini ritraggono le popolazioni africane in una sorta di dimensione atemporale in cui l’intento documentario e narrativo lascia quasi del tutto il posto a una forma di contemplazione. Il soggetto etnografico è proiettato direttamente in un ambito filosofico e simbolico, nonché in una ricerca del bello in evidente dialogo interiore con la ricerca spirituale del fotografo. I viaggi di Häberlin si erano svolti tra il 1949 e il 1952. Viaggi lenti. Senza fretta. Una sorta di personale esplorazione del mondo, in cui i fatti si eclissano e persino il rilievo etnologico lascia il posto a una poetica del disincanto, che vira decisamente in senso estetico e antistorico. Il risultato sono immagini che vivono nel dominio della luce diretta, così nitide da sembrare scolpite, da rifiutare se possibile le ombre. Alcune delle sue fotografie vennero raccolte nel volume Yallah, uscito con una prefazione dello scrittore americano Paul Bowles, e pubblicate postume nel 1956. Uno dei settimanali americani più letti, «The New Yorker», scrisse che il reportage era l’opera «di uno dei grandi fotografi del nostro tempo, capace di mostrare, come solo l’arte sa fare, ciò che altrimenti resterebbe celato». Il volume era stato ultimato dal padre con l’aiuto dello scrittore americano Paul Bowles, nella cui opera più celebre, Il tè nel deserto, adoperato da Bernardo Bertolucci come sceneggiatura per l’omonimo film, le immagini di Yallah sembrano far capolino a ogni descrizione d’ambiente.
Häberlin realizzò il suo reportage Trans-Sahariano tra il 1949 e il 1952, una immensa serie di scatti fotografici che scaturì da quattro viaggi (di uno dei quali sono state trovate ben poche informazioni), che egli compì seguendo le antiche vie carovaniere che da Algeri attraversavano il Sahara per terminare nel Camerun settentrionale. Poco dopo le sue peregrinazioni nel continente africano trovò la morte, nel 1953, in un tragico incidente occorsogli proprio alla vigilia di un’altra importante partenza, questa volta per il Messico. La biografia di Häberlin è a tutt’oggi in parte misteriosa. Non è stato semplice, seppur assai stimolante, ripercorrerne le tappe esistenziali e professionali, né tratteggiare i suoi numerosi viaggi, le frequentazioni e le letture. Nato nel 1912 nel villaggio rurale di Oberaach, in Svizzera (Cantone Turgovia), appare innegabile la sua forte tensione verso il viaggio, compiuto con qualsiasi mezzo a disposizione. Häberlin sembra usare la fotografia per accompagnare il suo lento muoversi nel mondo, rispettando i propri tempi più che quelli dei giornali e del mercato.
«Esovisioni» è un ciclo dedicato alle peculiarità e ai percorsi della visione delle culture attraverso l’obiettivo fotografico. L’ipotesi di lavoro è che il fotografo, prendendo a pretesto l’immagine esotica abbia, in modo consapevole o inconsapevole, restituito una propria visione interiore, fecondando l’immaginario collettivo di immagini ad arte e stereotipi delle diverse realtà culturali.